Mino Pecorelli: Il giornalista che Sapeva troppo

C’è una storia, nella Roma di fine anni ’70, che ancora oggi cammina tra i corridoi dei palazzi e nei silenzi dei salotti. È la storia di un uomo piccolo di statura ma enorme in inquietudine, che aveva il vizio pericoloso di sapere le cose prima degli altri. Si chiamava Mino Pecorelli, e il suo mestiere, almeno ufficialmente, era quello del giornalista. Ma ridurre Pecorelli a un semplice cronista sarebbe come chiamare il Vesuvio “una collina”: tecnicamente vero, ma del tutto insufficiente.
Pecorelli nasce in Molise, terra dura, di poche parole e molti segreti. Arriva a Roma giovane, con una laurea in legge e una certa attitudine a muoversi tra i corridoi del potere. Ma non è il tipo che sogna di diventare ministro o parlamentare. A lui interessa capire come funziona davvero il sistema, non quello che appare, ma quello che nessuno racconta.
Negli anni ’60 entra in contatto con ambienti militari, servizi segreti, personaggi borderline. Impara il linguaggio cifrato del potere e soprattutto capisce una cosa: in Italia, chi possiede le informazioni giuste non ha bisogno di urlare per farsi ascoltare. Basta sussurrare.
Nel 1968 fonda OP, un settimanale anomalo, a metà tra giornale e bollettino riservato. Lo leggono politici, magistrati, generali, banchieri. A volte lo temono. Dentro OP non ci sono grandi titoli a effetto, ma nomi in codice, indizi, mezze frasi che dicono molto a chi sa interpretarle. Pecorelli è un maestro in questo: non spiega mai tutto, ma dice abbastanza da far tremare chi deve.
Più si avvicina ai segreti, più si avvicinano i pericoli. Scrive sul caso Moro, sulla massoneria, sulle trame dentro lo Stato. Racconta cose che non si dovrebbero raccontare. O almeno non così, nero su bianco. Un giorno lascia intendere di avere materiale esplosivo. Qualcosa che potrebbe far saltare in aria carriere, equilibri, forse anche la tenuta stessa della Repubblica.
Il 20 marzo 1979 esce dal suo ufficio. È una sera normale. Troppo normale. Sale in macchina. Qualcuno lo segue. Lo aspetta. Quattro colpi. Secchi, silenziosi. Mino Pecorelli muore così, a pochi passi da casa, dentro una macchina che diventa il suo silenzioso epitaffio.
Chi l’ha ucciso? La lista dei sospetti è infinita. Troppo lunga per essere vera, troppo delicata per trovare una risposta certa. Politici potenti, massoni, mafiosi, servizi deviati. Anni dopo il nome più clamoroso che finirà sotto accusa sarà quello di Giulio Andreotti. Il Divo. L’intoccabile. Venne processato, assolto e condannato a fasi alterne. Ma la verità piena, quella definitiva, non è mai arrivata.
Ciò che resta è il vuoto. E una sensazione amara: Pecorelli non era solo un uomo che scriveva. Era un uomo che capiva. E questo, in certi ambienti, è molto più pericoloso.
I suoi scritti ancora oggi sembrano puzzle incompleti. Alcuni li leggono come profezie, altri come codici da decifrare. Quel che è certo è che raccontano un’Italia che spesso preferisce dimenticare. Un’Italia dove i fili del potere si intrecciano con quelli dell’ombra, dove la verità non sempre è un diritto, e spesso è solo un rischio.
Se oggi camminate in via Orazio a Roma, forse passerete accanto al punto esatto in cui Pecorelli fu ucciso. Nessuna targa, nessun ricordo. Solo un incrocio anonimo come tanti. Ma per chi conosce la storia, quel posto dice tutto. Dice che, in certi momenti, sapere è già di per sé una colpa.
E così resta lui, Mino, con il suo sorriso ironico, la voce sottile, i dossier sul tavolo e gli occhi sempre un passo avanti. Un uomo che pagò carissimo il suo vizio di sapere troppo, e di non volerlo tenere solo per sé.